Castaway on the Moon è la storia di due persone, entrambe si chiamano Kim.
Lui, Kim-Seung è un uomo che ha perso tutto: la vecchia ditta dove ha lavorato per tanti anni è fallita per bancarotta e la sua preparazione è insufficiente per poter riuscire a trovare un nuovo impiego; è oberato di debiti dopo che ha aperto numerose carte di credito; viene abbandonato dalla fidanzata con le parole “Fra una persona spregevole e una inetta qual è secondo te la peggiore?”. Ma questo è solo la fine di una serie di delusioni e perdite che ha subito sin dall’infanzia da un padre autoritario. Decide di farla finita, gettandosi da un ponte di Seul, nel fiume Han.
Lei, Kim-Jung, da tre anni ha deciso di non uscire mai più dalla sua stanza: è quella che in Giappone è chiamata hikikomori. Gli unici contatti con il mondo esterno li ha attraverso un computer, su cui accede a infiniti siti di chat, compra e salva immagini per potersi creare la sua vita perfetta: lo definisce il suo “lavoro”. Scandisce la sua giornata a ritmi regolari ed estremamente precisi. Nella sua stanza sono accumulati centinaia di sacchetti dei rifiuti. Unico suo passatempo è quello di fare fotografie alla luna. Solo due volte l’anno apre la finestra, altrimenti coperta a spesse tende, di giorno: corrispondono ai giorni in cui si effettuano le esercitazioni di emergenza e “la Terra diventa disabitata come la Luna“. È durante uno di questi giorni che incontra Seung.
Seung, buttandosi giù dal ponte, è finito su un’isola deserta nel bel mezzo del fiume. Lui, dapprima spaesato, piano piano incomincia a organizzarsi come sopravvivere sull’isola. Visto che nessuno si preoccupa per lui, la reclusione forzata diviene una possibilità per ricominciare, per poter ripartire da zero. Lo farà partendo da quello che trova sull’isola, e dalla sua buona volontà.
Riscopre dapprima il valore delle cose semplici, commuovendosi quando succhia dei fiori di salvia come quando era bambino. Poi, con i resti di una barchetta a pedali, si costruisce una rudimentale capanna; con l’immondizia che la corrente porta crea dei semplici strumenti di sopravvivenza. Riesce a fabbricarsi delle ciabatte con delle bottiglie di plastica, una rete da pesca con degli stracci, a coltivare le piante usando il sellino di una bici come zappa. Ogni scoperta, ogni cosa che non sapeva essere in grado di fare, viene vista come un trionfo, come una possibilità di realizzarsi, finalmente. Quando trova una busta vuota di noodles confezionati deciderà di coltivare e farli egli stesso: essi, per lui, hanno il sapore della speranza. Jung, vedendolo dal teleobbiettivo della sua macchina fotografica, decide di comunicare con lui.
Un uomo e una donna, due “alieni” della nostra società, in mezzo ai rifiuti, riescono a ritrovare un senso a un’esistenza che pareva finita per sempre. Lui riesce a ricrearsi una vita attraverso tutto quello che gli altri buttano, con intelligenza e caparbietà: lei che da anni vive in mezzo ai rifiuti deciderà di coltivare del mais in casa. Due prodotti della crisi – lo strapotere economico, il consumismo sfrenato, la necessità di imporsi e realizzarsi personalmente – che trovano una via per aprire finalmente gli occhi, una soluzione verde come i toni che sono stati dati alla fotografia del film: un arcobaleno di verdi, gialli, tonalità di marrone. Colori naturali, come è la natura nella quale i due protagonisti riescono a ritornare, in maniera simmetrica, esattamente come sono arrivati alla reclusione: lui per caso, lei per scelta. Rifiuti usati come humus per creare nuova vita e non più impilati senza uno scopo. Perché a tutto e a tutti venga data una seconda possibilità.